SENTENZA N. 187
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE
SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro
CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della
legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), promosso dalla
Corte d’appello di Torino nel procedimento vertente tra O.M. e il Ministero
dell’economia e delle finanze ed altri con ordinanza del 27 febbraio 2009,
iscritta al n. 144 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza
sociale (INPS), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo
Grossi;
uditi l’avvocato Nicola Valente per l’INPS e l’avvocato dello Stato
Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 27 febbraio 2009, la Corte di appello di Torino
ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge
23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in
cui, «condizionando il diritto dello straniero legalmente soggiornante sul
territorio nazionale alla fruizione dell’assegno sociale e delle altre
provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla
legislazione vigente in materia di servizi sociali» – fra i quali il
giudice a quo ritiene debba essere «certamente» annoverato quello
all’assegno di invalidità di cui all’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n.
118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove
norme in favore dei mutilati ed invalidi civili) – «al requisito della
titolarità della carta di soggiorno e, quindi, alla legale presenza sul
territorio dello Stato da almeno cinque anni, pone una discriminazione nei
confronti dello straniero rispetto al cittadino», in violazione dell’art.
14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, e dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla
Convenzione stessa, adottato a Parigi il 20 marzo 1952 e reso esecutivo con
la legge 4 agosto 1955, n. 848, così come interpretati dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo.
La Corte rimettente ha premesso, in fatto, che una cittadina romena
dimorante in Italia e munita del permesso di soggiorno, ha proposto ricorso
il 15 novembre 2007 davanti al Tribunale di Torino, lamentando che, pur
essendo stata riconosciuta invalida con riduzione permanente della capacità
lavorativa in misura superiore ai 2/3, in base ad una percentuale accertata
dell’80%, poi aggravatasi fino al 90%, ed essendo iscritta alle liste speciali
di collocamento obbligatorio dal 4 marzo 2005, le era stato negato
l’assegno di invalidità civile di cui all’art. 13 della legge n. 118 del
1971, per non essere titolare della carta di soggiorno, come prescritto
dall’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000. Il Tribunale adìto,
con sentenza del 16-18 aprile 2008, aveva accolto il ricorso soltanto a
decorrere dal 1° gennaio 2007, data dell’ingresso della Romania nella
Unione Europea, respingendolo, invece, per il periodo antecedente, reputando
legittima la previsione normativa che subordinava la concessione
dell’assegno ai soli titolari della carta di soggiorno. Avverso la detta
sentenza ha proposto appello la ricorrente, deducendo il contrasto della
normativa in questione con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il giudice rimettente, dopo aver richiamato il contenuto dell’art. 80,
comma 2, della legge n. 388 del 2000 nonché la disciplina della carta di
soggiorno, e sottolineata la sicura riconducibilità dell’assegno per cui è
controversia al novero delle “provvidenze economiche che costituiscono
diritti soggettivi”, comprese nella disposizione che ne limita la
fruibilità da parte degli stranieri al requisito del possesso della carta
di soggiorno, ha ricordato come la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo abbia puntualizzato che anche per le prestazioni sociali
vale la tutela dei diritti patrimoniali che devono essere riconosciuti a
tutti; pena, altrimenti, la violazione dell’art. 14 della Convenzione, che
vieta la previsione di trattamenti discriminatori.
Da tutto ciò deriverebbe – al lume delle sentenze di questa Corte n. 348
e n. 349 del 2007 – la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in
riferimento alle citate previsioni della CEDU e del Protocollo addizionale,
sottolineandosi, d’altra parte, la circostanza che questa Corte ha già
avuto modo di dichiarare la illegittimità della norma denunciata con la
sentenza n. 306 del 2008, in riferimento alla indennità di accompagnamento
di cui all’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di
accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili), e con la sentenza
n. 11 del 2009, in riferimento alla pensione di inabilità di cui all’art.
12 della legge n. 118 del 1971.
2. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituito l’Istituto
nazionale della previdenza sociale (INPS), il quale ha chiesto dichiararsi
infondata la proposta questione. Richiamato il quadro normativo di
riferimento e la giurisprudenza costituzionale specifica, l’Istituto
previdenziale ha sottolineato, infatti, come l’intervento restrittivo
oggetto di censura non possa ritenersi incostituzionale, avendo questa
Corte affermato la legittimità di interventi legislativi tesi a modificare
in senso limitativo, nei rapporti di durata, le prestazioni da erogare, sia
nell’an che nel quantum. Inoltre, non potrebbe sindacarsi la scelta del
legislatore di differenziare le prestazioni in favore degli stranieri
accordandole soltanto a quelli che risiedano in Italia da più tempo e con
maggiore stabilità: come d’altra parte è previsto, in tema di assegno
sociale, dall’art. 20, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n.
133, il quale dispone che «a decorrere dal 1° gennaio 2009, l’assegno
sociale di cui all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335,
è corrisposto agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato
legalmente, in via continuativa, per almeno cinque anni [recte: dieci anni,
come modificato in sede di conversione] nel territorio nazionale».
Non sussisterebbe, poi, violazione dell’ordinamento comunitario, in
quanto i regolamenti comunitari (numeri 1408/71; 574/72; 859/03) non sono
applicabili ai cittadini di paesi terzi, mentre la pretesa violazione della
CEDU non potrebbe essere ricondotta né all’art. 10 Cost. né all’art. 11
della stessa Carta. Quanto al dedotto parametro dell’art. 117, primo comma,
Cost., alla luce dei princípi enunciati dalle sentenze n. 348 e n. 349 del
2007, l’Istituto rileva che le norme CEDU, per come interpretate dalla
Corte di Strasburgo, non si sottraggono alla verifica di compatibilità con
l’ordinamento costituzionale italiano. Dunque, nell’ambito delle norme –
peraltro di tipo politico-programmatico – dettate dalla CEDU e dal
Protocollo addizionale, non sarebbero «individuabili norme di rango
costituzionale che impongano al legislatore di equiparare gli stranieri ai
cittadini dell’Unione ai fini della concessione di provvidenze economiche
di mera assistenza sociale». Va d’altra parte osservato – rileva
conclusivamente l’Istituto – che la norma censurata è stata inserita nella
legge finanziaria per il 2001, sicché i limiti di accesso alle prestazioni,
sono stati posti tenendo conto delle esigenze finanziarie disponibili per i
fini di assistenza sociale: limitazioni, dunque, giustificate dalle
esigenze di contenimento della spesa pubblica, in più occasioni evocate
dalla giurisprudenza costituzionale (vengono richiamate le sentenze di
questa Corte n. 99 del 1995, n. 240 del 1994, e n. 822 del 1988).
3. – Nel giudizio è intervenuto, infine, il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la
quale ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la
questione. Dopo aver analizzato la disciplina coinvolta dal dubbio di
legittimità costituzionale ed aver diffusamente richiamato la
giurisprudenza costituzionale pertinente alla questione proposta,
l’Avvocatura – sottolineando alcuni passaggi della sentenza n. 308 del 2008
– ritiene che il quesito debba essere esaminato in funzione della natura
del beneficio cui la questione si riferisce: se cioè lo stesso sia o meno
qualificabile come mezzo diretto a “rimediare a gravi situazioni di
urgenza”. Al riguardo, l’Avvocatura ritiene che la natura e la ratio
dell’assegno di assistenza sia del tutto diversa da quella della pensione
di inabilità o dell’indennità di accompagnamento (già scrutinati da questa
Corte), giacché, postulando questi ultimi l’inabilità totale dell’istante,
«tendono sicuramente a fronteggiare situazioni di gravità e urgenza».
L’assegno di assistenza mira, invece, ad integrare l’eventuale minor
reddito percepito dalla parte che, malgrado la inabilità parziale, è
comunque avviata al lavoro, posto che la erogazione dell’assegno presuppone
che l’istante sia iscritto obbligatoriamente nelle liste di collocamento,
al precipuo scopo, appunto, «di consentire all’invalido di trovare una
condizione lavorativa confacente al suo stato». In tale quadro di
riferimento, pertanto, non può ritenersi illogico che lo Stato, in ragione
delle limitate risorse finanziarie, subordini la erogazione della
prestazione in discorso alla titolarità della carta di soggiorno, che
attesta «l’effettivo e stabile inserimento del soggetto extracomunitario
nella compagine sociale italiana», mentre la circostanza che si tratti
nella specie di un «beneficio di natura non vitale ma accessoria», esclude
il contrasto con l’art. 14 della CEDU, potendo lo Stato subordinare la
provvidenza per gli stranieri agli stessi requisiti previsti per il
cittadino italiano, «primo fra tutti l’inserimento nella compagine sociale
italiana, attestato dalla presenza continua nel territorio nazionale […]».
Considerato in diritto
1. – La Corte di appello di Torino solleva questione di legittimità
costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 28 dicembre 2000, n. 388
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui tale norma, nello
stabilire che «ai sensi dell’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio
1998, n. 286, l’assegno sociale e le provvidenze economiche che
costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in
materia di servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla
legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di
soggiorno», subordina al requisito della titolarità della carta di
soggiorno la concessione, agli stranieri legalmente soggiornanti nel
territorio dello Stato, dell’assegno mensile di invalidità, previsto
dall’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del
decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed
invalidi civili).
A parere della Corte rimettente, infatti, la disposizione censurata, nel
subordinare il diritto alle prestazioni previdenziali che costituiscono
diritti soggettivi, fra i quali deve certamente annoverarsi l’assegno di
invalidità previsto dall’art. 13 della legge n. 118 del 1971, alla
titolarità della carta di soggiorno, e dunque al requisito della presenza
nel territorio dello Stato da almeno cinque anni, introdurrebbe un
ulteriore requisito atto a generare una discriminazione dello straniero nei
confronti del cittadino, in contrasto con i princípi enunciati dall’art. 14
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, e dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione
stessa, adottato a Parigi il 20 marzo 1952, secondo l’interpretazione che
di essi è stata offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Da qui
la violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, alla stregua
dei princípi affermati da questa Corte nelle sentenze n. 348 e n. 349 del
2007.
2. – La questione è fondata.
La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in varie
occasioni, avuto modo di sottolineare come la Convenzione non sancisca un
obbligo per gli Stati membri di realizzare un sistema di protezione sociale
o di assicurare un determinato livello delle prestazioni assistenziali;
tuttavia, una volta che tali prestazioni siano state istituite e concesse,
la relativa disciplina non potrà sottrarsi al giudizio di compatibilità con
le norme della Convenzione e, in particolare, con l’art. 14 che vieta la
previsione di trattamenti discriminatori (in tal senso, Stec ed altri
contro Regno Unito, decisione sulla ricevibilità del 6 luglio 2005; Koua
Poirrez contro Francia, sentenza del 30 settembre 2003; Gaygusuz contro
Austria, sentenza del 16 settembre 1996; Salesi contro Italia, sentenza del
26 febbraio 1993). Al tempo stesso, la Corte di Strasburgo ha anche
sottolineato l’ampio margine di apprezzamento di cui i singoli Stati godono
in materia di prestazioni sociali, in particolare rilevando come le singole
autorità nazionali, in ragione della conoscenza diretta delle peculiarità
che caratterizzano le rispettive società ed i correlativi bisogni, si
trovino, in linea di principio, in una posizione privilegiata rispetto a
quella del giudice internazionale per determinare quanto risulti di
pubblica utilità in materia economica e sociale. Da qui l’assunto secondo
il quale la Corte rispetta, in linea di massima, le scelte a tal proposito
operate dal legislatore nazionale, salvo che la relativa valutazione si
riveli manifestamente irragionevole (Carson ed altri contro Regno Unito,
sentenza del 16 marzo 2010; Luczak contro Polonia, sentenza del 27 novembre
2007). A proposito, poi, dei limiti entro i quali opera il divieto di
trattamenti discriminatori stabilito dall’art. 14 della Convenzione, la
stessa Corte non ha mancato di segnalare il carattere relazionale che
contraddistingue il principio, nel senso che lo stesso non assume un
risalto autonomo, «ma gioca un importante ruolo di complemento rispetto
alle altre disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli, perché
protegge coloro che si trovano in situazioni analoghe da discriminazioni
nel godimento dei diritti garantiti da altre disposizioni» (da ultimo,
Oršuš ed altri contro Croazia, sentenza del 16 marzo 2010). Il trattamento
diviene dunque discriminatorio – ha puntualizzato la giurisprudenza della
Corte – ove esso non trovi una giustificazione oggettiva e ragionevole; non
realizzi, cioè, un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e
l’obiettivo perseguito (ad es., Niedzwiecki contro Germania, sentenza del
25 ottobre 2005). Non senza l’ulteriore puntualizzazione secondo la quale
soltanto «considerazioni molto forti potranno indurre a far ritenere
compatibile con la Convenzione una differenza di trattamento fondata
esclusivamente sulla nazionalità» (da ultimo, Si Amer contro Francia,
sentenza del 29 ottobre 2009, ed i precedenti ivi citati).
Lo scrutinio di legittimità costituzionale andrà dunque condotto alla
luce dei segnalati approdi ermeneutici, cui la Corte di Strasburgo è
pervenuta nel ricostruire la portata del principio di non discriminazione
sancito dall’art. 14 della Convenzione, assunto dall’odierno rimettente a
parametro interposto, unitamente all’art. 1 del Primo Protocollo
addizionale, che la stessa giurisprudenza europea ha ritenuto raccordato,
in tema di prestazioni previdenziali, al principio innanzi indicato (in
particolare, sul punto, la citata decisione di ricevibilità nella causa
Stec ed altri contro Regno Unito).
A tal proposito, occorre preliminarmente rilevare come la disposizione
oggetto di impugnativa abbia senz’altro perseguito una finalità restrittiva
in tema di prestazioni sociali da riconoscere in favore dei cittadini
extracomunitari. L’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000,
stabilisce, infatti, per quanto qui interessa, che «l’assegno sociale e le
provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla
legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi, alle
condizioni previste dalla normativa medesima, agli stranieri che siano
titolari di carta di soggiorno» (ora permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo). La norma, dunque, è intervenuta
direttamente sui presupposti di legittimazione al conseguimento delle
provvidenze assistenziali, circoscrivendo la platea dei fruitori, quanto ai
cittadini extracomunitari, a coloro che siano in possesso della carta di
soggiorno, il cui rilascio presuppone, fra l’altro, il regolare soggiorno
nel territorio dello Stato da almeno cinque anni, secondo l’originaria
previsione dell’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286
(Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero). Periodo elevato a sei anni, a
seguito delle modifiche apportate al citato art. 9 dalla legge 30 luglio
2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di
asilo), e nuovamente determinato in cinque anni, con la nuova disciplina
dello stesso articolo 9, introdotta ad opera del decreto legislativo 8
gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo
status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo). In
sostanza, dopo l’entrata in vigore della normativa censurata, è venuta
meno, con riferimento ai soggetti legittimati a fruire di trattamenti
previdenziali costituenti diritti soggettivi, la equiparazione,
precedentemente esistente, fra i cittadini italiani e gli stranieri
extracomunitari in possesso di regolare permesso di soggiorno.
Ebbene, proprio con riferimento alla normativa in questione, questa
Corte non ha mancato di sottolineare come al legislatore italiano sia senz’altro
consentito di dettare norme, non palesemente irragionevoli e non in
contrasto con gli obblighi internazionali, intese a regolare l’ingresso e
la permanenza degli stranieri extracomunitari in Italia. Ed ha altresì
soggiunto che «è possibile, inoltre, subordinare, non irragionevolmente,
l’erogazione di determinate prestazioni – non inerenti a rimediare a gravi
situazioni di urgenza – alla circostanza che il titolo di legittimazione
dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il
carattere non episodico e di non breve durata; una volta, però – ha
soggiunto questa Corte – che il diritto a soggiornare alle condizioni
predette non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri,
stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento
dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini»
(sentenza n. 306 del 2008).
Ciò che dunque assume valore dirimente, ai fini dell’odierno scrutinio,
non è tanto la configurazione “nominalistica” dello specifico strumento
previdenziale che può venire in discorso, quanto, piuttosto, il suo
concreto atteggiarsi nel panorama degli istituti di previdenza, così da
verificarne la relativa “essenzialità” agli effetti della tutela dei valori
coinvolti. Occorre, in altri termini, accertare se, alla luce della
configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere
nel sistema, lo specifico “assegno” che viene qui in discorso integri o
meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei
“bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana,
che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio
costituente, dunque, un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa
sopravvivenza del soggetto. D’altra parte, la giurisprudenza della Corte di
Strasburgo ha sottolineato come, «in uno Stato democratico moderno, molti
individui, per tutta o parte della loro vita, non possono assicurare il
loro sostentamento che grazie a delle prestazioni di sicurezza o di
previdenza sociale». Sicché, «da parte di numerosi ordinamenti giuridici
nazionali viene riconosciuto che tali individui sono bisognosi di una certa
sicurezza e prevedono, dunque, il versamento automatico di prestazioni, a
condizione che siano soddisfatti i presupposti stabiliti per il
riconoscimento dei diritti in questione» (la già citata decisione sulla
ricevibilità del 6 luglio 2005, Staic ed altri contro Regno Unito). Ove,
pertanto, si versi in tema di provvidenza destinata a far fronte al
“sostentamento” della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e
stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su
requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in
contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, avuto riguardo alla relativa lettura che, come si è
detto, è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo.
A tale riguardo può rilevarsi che l’art. 13 della legge 30 marzo 1971,
n. 118, prevedeva, nel suo testo originario, la corresponsione di un
assegno mensile per tredici mensilità «ai mutilati ed invalidi civili di
età compresa fra il diciottesimo ed il sessantacinquesimo anno nei cui
confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella
misura superiore a due terzi, incollocati al lavoro e per il tempo in cui
tale condizione sussiste», con le stesse condizioni e modalità previste per
l’assegnazione della pensione di invalidità di cui all’art. 12 della stessa
legge. Stabiliva, poi, il secondo comma dello stesso art. 13, che l’assegno
di invalidità potesse «essere revocato, su segnalazione degli uffici
provinciali del lavoro e della massima occupazione, qualora risulti che i
beneficiari non accedono a posti di lavoro adatti alle loro condizioni
fisiche».
Il medesimo art. 13 è stato poi sostituito ad opera dell’art. 1, comma
35, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del
Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per
favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in
materia di lavoro e previdenza sociale). Stabilisce il nuovo testo della
norma che «agli invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo e il
sessantaquattresimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione
della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento,
che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione
sussiste, è concesso, a carico dello Stato ed erogato dall’INPS, un assegno
mensile di euro 242,84 per tredici mensilità, con le stesse condizioni e
modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’art. 12».
Prevede, poi, il comma 2 del medesimo articolo che il fruitore del
beneficio provvede ad autocertificare all’INPS di non svolgere attività
lavorativa e l’obbligo di dare tempestiva comunicazione al medesimo
Istituto ove tale condizione venga meno.
Dalla disciplina innanzi richiamata emerge, dunque, che l’assegno in
questione può essere riconosciuto soltanto in favore di soggetti invalidi
civili, nei confronti dei quali sia riconosciuta una riduzione della
capacità lavorativa di misura elevata; che la provvidenza stessa, in tanto
può essere erogata, in quanto il soggetto invalido non presti alcuna
attività lavorativa; che l’interessato versi, infine, nelle disagiate
condizioni reddituali stabilite dall’art. 12 della stessa legge n. 118 del
1971, per il riconoscimento della pensione di inabilità.
Si tratta, dunque, all’evidenza, di una erogazione destinata non già ad
integrare il minor reddito dipendente dalle condizioni soggettive, ma a
fornire alla persona un minimo di “sostentamento”, atto ad assicurarne la
sopravvivenza; un istituto, dunque, che si iscrive nei limiti e per le
finalità essenziali che questa Corte – anche alla luce degli enunciati
della Corte di Strasburgo – ha additato come parametro di ineludibile
uguaglianza di trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente
soggiornanti nel territorio dello Stato.
La norma impugnata deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente
illegittima nella parte in cui subordina al requisito della titolarità
della carta di soggiorno la concessione, agli stranieri legalmente
soggiornanti nel territorio dello Stato, dell’assegno mensile di invalidità
di cui all’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118.
per questi motivi
la corte costituzionale
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della
legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in
cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la
concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello
Stato dell’assegno mensile di invalidità di cui all’art. 13 della legge 30
marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971,
n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 26 maggio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2010.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
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